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«Datemi Scott a capo di una spedizione scientifica,
Amundsen per un raid rapido ed efficace; ma,
quando siete nell’avversità e non intravedete via d’uscita,
inginocchiatevi e pregate che Dio vi mandi Shackleton.»

 (Raymond Priestley)

Cosa rende grande un comandante? Cosa lo pone in quel posto d’onore destinato a pochi?
E’ una questione di obiettivi che raggiunge? Dipende da quante persone dirige?
O ci sono altri modi per raggiungere l’eccellenza al comando di una imbarcazione o di una qualunque altra impresa?

Shackleton_2Perché Shackleton non raggiunse nessuno degli obiettivi ambiziosi che si propose e non comandò mai più di qualche decina di uomini. Eppure oltre alla dichiarazione che avete letto qui sopra da parte di Priestley – geologo, geografo, esploratore fino a presidente della Royal Geographical Society, che servì sotto il comando di Shackleton – anche il primo uomo a scalare il monte Everest dichiarò pubblicamente che il “Capitano Shackleton è stato il più grande leader che Dio abbia mai mandato sulla terra”.

La ragione è che il capitano Shackleton fu il protagonista della più incredibile e fantastica storia di salvataggio di tutti i tempi in cui mostrò un coraggio e valore straordinari, valutazioni oculate, una incrollabile determinazione unita ad una saggezza consolidata dall’esperienza.

E le persone inginocchiate a pregare che Dio mandasse proprio lui sono esistite veramente: 22 membri del suo equipaggio che ebbero come unica speranza la riuscita del piano di salvezza del loro comandante. Lasciati dal comandante stesso ad aspettare sull’Isola Elefante vicino all’Antartide, sferzati da un clima polare, in un luogo che non fornisce il sostentamento a nessun genere di flora o fauna, e le forme di vita che vi si trovano in alcuni periodi dell’anno sono solo gruppi migratori di pinguini e foche. Nessun essere umano vive sull’isola nemmeno oggi perché tra l’altro manca un approdo e i fondali sono pericolosi.

Torniamo allora all’inizio di quest’avventura incredibile, alle esplorazioni dell’Antartide e al perché sarà ricordata per sempre.

Shackleton stesso ne scrive l’esordio nel libro in cui raccoglierà la trascrizione dei propri appunti, “Sud!”:

«Dopo la conquista del Polo Sud da parte di Amundsen che, per pochi giorni, aveva preceduto la spedizione britannica di Scott, restava una sola grande impresa dell’esplorazione antartica: l’attraversamento del continente bianco da mare a mare.»

E così Shackleton iniziò la raccolta di finanziamenti per organizzare una missione che doveva consentire ad un gruppo di britannici – partendo da Londra – di attraversare l’Antartide, dal mare di Weddell, (oceano Atlantico), al mare di Ross (oceano Pacifico), passando per il Polo. Un viaggio trans-continentale di oltre 3000 chilometri in barca a vela: la spedizione Endurance, conosciuta anche come Imperial Trans Antarctic Expedition, 1914.

Endurance sarebbe stata la prima missione con destinazione Antartide organizzata dal Regno Unito dopo che Roald Amundsen (norvegese) aveva battuto Robert Falcon Scott (inglese) nella corsa al Polo nel dicembre 1911. La sconfitta e la tragica fine di Scott – che nella marcia di rientro al campo base, perse la vita insieme ai membri della sua spedizione – erano state un grande smacco per il Regno Unito che aveva tentato, con ben tre spedizioni nel decennio precedente, di essere il primo paese a raggiungere il Polo Sud.

La radici di una tale sfida risalevano a molto tempo prima. Shackleton infatti dichiarò:

«Mi sembrò di avere fatto voto con me stesso che un giorno sarei andato nella regione del ghiaccio e della neve, e avrei proseguito avanti e ancora avanti fino a quando sarei arrivato a uno dei poli terrestri, la fine dell’asse su cui ruota questa grande sfera.»

L’annuncio di ricerca del personale per la spedizione di Shackleton non assomiglia neanche lontanamente a un annuncio di lavoro del giorno d’oggi:

«Si cercano uomini per viaggio pericoloso, salario basso, freddo pungente, lunghi mesi di completa oscurità, pericolo costante, ritorno incerto. Onori e riconoscimenti in caso di successo.»

Annuncio

Fu pubblicato il 1 gennaio 1914 e si presentarono circa 5000 persone.

I metodi di intervistare e di selezionare le persone da parte di Shackleton erano originali e singolari. Credendo che il carattere e il temperamento fossero altrettanto importanti delle abilità tecniche poneva domande non convenzionali. Ad esempio il fisico Reginald James rimase sconcertato quando gli venne chiesto se sapesse cantare, altri vennero accettati sulla base di una rapida occhiata del capitano e altri ancora dopo la risposta a una sola semplice domanda.

Shackleton era alla ricerca di persone che sapessero lavorare in modo libero dalla gerarchia tradizionale, aspettandosi che ogni uomo, scienziati inclusi, facesse i compiti necessari per quanto faticosi e umili.

Ne furono selezionate 56, 28 per la nave che doveva portarli e 28 per la la nave che sarebbe dovuta andarli a riprenderli.

28 uomini e 70 cani. 28 uomini duri, forti e sicuramente mezzi matti in cerca di emozioni uniche, impossibili da provare altrimenti. Fra questi c’erano Frank Worsley, il comandante della nave, 2 medici, un biologo, un fisico, un meteorologo, un artista disegnatore, un fotografo/cineoperatore, Frank Hurley, che riuscì a fotografare e filmare l’impresa. Le foto della spedizione che abbiamo caricato nel post sono sue, e qui sotto potete vedere un filmato, con la raccolta delle foto e dei video della spedizione. Potete anche cliccare sul video e lasciare che il sonoro vi accompagni nella lettura come avete già fatto con “Sailing“.

 

Possiamo intuire la saggezza e l’occhio lungo di Shackleton nello scegliere uomini che sapessero sia divertirsi e divertire per evitare di cedere alla disperazione, sia lavorare a qualunque compito fosse necessario dall’organizzare le provviste al pulire il ponte della nave.

Sebbene non ci siano prove che l’annuncio fosse vero, l’atmosfera e il potere evocativo che trasmette non sono lontane dal vero anche ricordandoci che siamo alla vigilia della prima guerra mondiale.

Endurance

Endurance era anche il nome che venne dato alla nave utilizzata per il viaggio di andata. Si trattava di un veliero 3 alberi, dotato anche di un motore a singola elica sviluppante una potenza di circa 350 CV, che consentiva una velocità media di 10 nodi (circa 19 km/h), progettato espressamente per le esplorazioni artiche. Le sue dimensioni erano di 43,9 m di lunghezza e 7,6 m di larghezza per una stazza di 320 tonnellate. La nave venne acquistata sottocosto da Shackleton nel 1914, due anni dopo il varo ufficiale, per l’importo di 11.600 sterline.

La nave salpò da Londra il 1º agosto 1914, tre giorni prima che l’Inghilterra dichiarasse guerra alla Germania, con a bordo Shackleton e altri 27 uomini. La nave Endurance rimase ancorata a Grytvyken (Georgia del Sud) per circa un mese e salpò nuovamente diretta verso il mare di Weddel il 5 dicembre del 1914, il 10 gennaio 1915 la nave raggiunse il mare di Weddell e il 19 dello stesso mese rimase bloccata dal ghiaccio a 76°34′S 31°30′W.

Shackleton a questo proposito scrisse:

“La nostra posizione al mattino del 19 era lat. 76°34´S., long. 31°30´O. Il tempo era buono, ma era impossibile avanzare. Durante la notte il ghiaccio aveva circondato la nave e dal ponte non era possibile vedere mare libero.”

E qui inizia l’avventura vera e propria, senza più mare attorno ma solo ghiaccio e con l’Endurance alla deriva incastrata nell’immenso blocco di ghiaccio che la immobilizzava e la trasportava verso ovest ed al tempo stesso verso nord portando la spedizione sempre più lontano dalla costa di Luitpold. Le speranze di Shackleton di iniziare la traversata la stagione seguente si facevano ogni ogni giorno più remote.

Il 1º maggio 1915 il sole tramonta un’ultima volta sull’Antartico: è l’inizio del lungo inverno australe. Shackleton scrive:

«Il primo maggio diciamo addio al sole ed entriamo nel crepuscolo che sarà seguito dall’oscurità del pieno inverno. Il sole, grazie alla rifrazione rischiara l’orizzonte da mezzogiorno sino alle 2.»

L’equipaggio tenta di pompare fuori l’acqua, tuttavia il 27 ottobre – dopo 281 giorni dall’incagliamento (duecentoottantuno giorni nel ghiaccio!!!) – Shackleton dà l’ordine di abbandonare la nave.

«È difficile scrivere quello che sento. Per un marinaio la propria nave è qualcosa di più di una casa galleggiante – e sull’Endurance io avevo riposto ambizione, speranza e desiderio. Adesso, gemendo e stridendo, mentre i suoi legni si spezzano e le sue ferite sanguinano, sta lentamente morendo, proprio ora che la sua storia era appena iniziata, essa sta lentamente rinunciando alla sua vita senziente. Dopo essere andata alla deriva per più di 570 miglia in direzione nord-ovest, nel corso dei 281 giorni, durante i quali è rimasta intrappolata nel pack, ora l’Endurance è annientata e abbandonata.»

Gli uomini si accampano sul ghiaccio (stiamo parlando di un posto dove la temperatura esterna è intorno ai -25 °C) portando con sé i cani, i materiali, le provviste e tre scialuppe di salvataggio: la Stancomb Willis e la Dudley Docker due cutter in pratica due canotti a vela e la James Caird classica baleniera lunga sette metri. Le settimane seguenti saranno utilizzate per salvare tutto quanto possibile dalla nave, in particolare verranno recuperate le fotografie ed il materiale fotografico, in un primo tempo abbandonato. Nel frattempo la nave continua ad essere sottoposta alle violente pressioni della banchisa che provocano numerose rotture tanto che, il 15 novembre 1915 l’Endurance si inabissa definitivamente a 69°00′S 51°30′W e il 21 novembre fu completamente distrutta dalla pressione del ghiaccio.

I sogni di gloria di Shackleton ancora una volta non si realizzano, Shackleton, avendo ben presente anche quello che che accadde a Scott, decide che la spedizione non si concluderà e si dedica a pensare a come può salvare la vita al proprio equipaggio.

Shackleton fece trasferire l’equipaggio sulla banchisa in un accampamento d’emergenza chiamato Ocean Camp dove rimasero fino al 29 dicembre quando si trasferirono, trasportando al traino tre scialuppe di salvataggio sul un lastrone di banchisa in quello che chiamarono Patience Camp.

 

Giocano_Calcio

Fino all’8 aprile 1916 rimasero sulla banchisa e quando questa iniziò a sciogliersi tentarono di raggiungere, a bordo delle scialuppe, l’isola Elefante. Dopo una navigazione molto difficile, raggiunsero la costa dell’isola il 15 aprile del 1916 (498º giorno della spedizione).

Ora sì che la faccenda diventava seria: erano 28 uomini sperduti in Antartide, in un luogo non esattamente ideale dove attendere soccorsi sorseggiando un aperitivo. L’isola è terribilmente inospitale: la maggior parte della superficie è ricoperta da neve e ghiaccio mentre il resto è costituito esclusivamente da rocce. Nonostante la relativa abbondanza di foche e pinguini, il gruppo teme che gli animali migratori possano spostarsi così come era avvenuto per quelli nei pressi del campo sul continente da poco abbandonato. L’arrivo dell’inverno è un’ulteriore fonte di preoccupazione e infine l’isola si trova distante dai luoghi che la spedizione aveva previsto di esplorare e lontana dalle rotte marittime dell’epoca rendendo in pratica impossibile probabile l’avvistamento casuale con l’aggravante che l’Inghilterra adesso era impegnata con tutte le proprie forze nel conflitto bellico.

Shackleton si trovò di fronte alla difficile decisone di cosa fare in una situazione del genere, come avrebbe potuto salvare i suoi 27 uomini da quell’inferno di ghiaccio?

Shackleton capisce rapidamente che è indispensabile ripartire al più presto e, conoscendo il clima e i venti della zona grazie a esplorazioni precedenti, non sceglie il posto più vicino ma quello che può raggiungere anche se ovviamente con una probabilità molto bassa: una base baleniera situata nella Georgia del Sud (distante 870 miglia marine, oltre 1.600 km!!!) da dove erano passati 522 giorni prima. Scelse cinque uomini per cercare aiuto e utilizzò la scialuppa (di sette metri!!!) che versava in condizioni migliori, la James Caird.

 

James_Caird

Salparono il 24 aprile 1916 con l’aiuto di un sestante, di un cronometro, della speranza e di tutta l’audacia del capitano Shackleton.

Le acque che gli uomini dovettero affrontare a bordo di una barca lunga sette metri carica di gallette e sacchi di sabbia per fare da zavorra sono conosciute per essere tra le più tempestose del mondo. Le stazioni meteorologiche moderne installate in quella zona registrano venti da 60 a 70 km/h ed onde di oltre sette metri per 200 giorni all’anno mentre le onde di oltre 20 metri non sono affatto rare.

Il viaggio della James Caird resta a tutt’oggi uno dei più temerari viaggi marittimi mai effettuati.

Ecco cosa scrive Shackleton a proposito proprio di una di quelle onde che dovette affrontare durante la navigazione:

 

Onde

«A mezzanotte ero al timone ed improvvisamente ho notato una linea nel cielo tra il sud ed il sud-ovest. Ho chiamato gli altri uomini ed ho detto loro che il cielo si stava schiarendo ma un momento dopo ho capito che avevo visto non un varco tra le nubi, ma la cresta di un’enorme onda. In tutti i miei 26 anni di esperienza negli oceani non avevo mai incontrato un’onda così gigantesca. Era un poderoso sollevamento dell’oceano, superiore al solito mare schiumoso, nostro nemico instancabile da giorni.

Ho gridato, “In nome di Dio, tenetevi! È sopra di noi!”

Poi venne il momento dell’attesa, che è sembrato durare ore. La bianca schiuma del mare era tutta intorno a noi. Abbiamo sentito la nostra barca sollevarsi e vacillare come un sughero sulla cresta dell’onda. Eravamo in balia del mare, ma in qualche modo la barca è riuscita a resistere mezza piena d’acqua incurvandosi sotto il peso e fremendo al colpo.

 

Abbiamo utilizzato l’energia degli uomini che combattono per la vita, lanciando l’acqua fuoribordo con ogni mezzo e dopo dieci minuti di incertezza abbiamo sentito la barca ritornare alla vita.»

L’8 maggio 1916, dopo 15 giorni di navigazione l’equipaggio, stanco ed assetato, avvista alcune isole della Georgia del Sud. Il morale si riprende ma Shackleton, per evitare un attracco di notte su una costa sconosciuta e non ancora presente sulle carte preferisce fermarsi al largo ed attendere la luce. Il problema fu che dopo poche ore scoppiò una violentissima tempesta con venti simili a quelli di un uragano. Per nove faticosissime e pericolosissime ore l’equipaggio lottò per non essere spinto contro gli scogli e finalmente a toccò terra il 10 maggio nella baia di Re Haakon.

Shackleton scriverà:

«Tuttavia, assicurai la fune che teneva la barca, ed in pochi minuti eravamo tutti in salvo sulla spiaggia, con la barca che galleggiava nell’acqua agitata a pochi metri da riva. Abbiamo sentito uno scroscio che era musica per le nostre orecchie e, guardato intorno abbiamo scorto un piccolo ruscello d’acqua dolce quasi ai nostri piedi. Un istante dopo eravamo in ginocchio che bevevamo acqua pura, acqua gelata a grandi sorsi che infondeva nuova vita dentro di noi. Fu un momento splendido.»

Piccolo particolare di cui si resero subito conto: il campo base che dovevano raggiungere era dalla parte opposta dell’isola.

Così Shackleton, insieme a Tom Crean e Frank Worsley, impiegò altre 36 ore ad attraversare 30 miglia di montagne e ghiacciai inesplorati della Georgia del Sud (fu il primo attraversamento dell’isola!!!) per raggiungere la stazione baleniera di Stromness situata sulla costa settentrionale: vi giunsero il 20 maggio.

E intanto il tempo passava inarrestabile e i 22 uomini erano ancora intrappolati nei ghiacci dell’isola Elefante, al comando del secondo di Shackleton, Frank Wild. Shackleton ha scritto nei suoi racconti che prima di salpare con la James Caird i venti, che soffiavano tra i 112 ed i 145 chilometri orari, avevano ridotto a brandelli le vele.

Sull’isola Elefante le temperature sono estremamente rigide e la notte il termometro segna -20°. L’isola non ha alcun tipo di rifugio naturale, una grotta, una roccia, niente. Gli uomini che vi rimasero bloccati costruirono una rudimentale capanna utilizzando gli scafi rovesciati delle due scialuppe rimaste come tetto. Quel che resta delle vele è cucito insieme ed utilizzato, insieme alla neve compattata, per tentare di isolare il riparo. La struttura è scossa ogni volta dai violenti blizzard che si abbattono sull’isola.

Cercarono di tenersi il morale alto a vicenda come testimoniano i versi seguenti che composero in segno di gratitudine verso il comandante Wild che rimase sull’isola con il compito di farne sopravvive quanti possibile e più a lungo possibile:

«Il mio nome è Frankie Wild-o.

La mia capanna è all’isola Elefante.

Il muro non ha neppure un mattone

e il tetto non ha tegole.

Tuttavia devo confessare,

per molte e molte miglia,

lei è la più splendida dimora

e la troverai all’isola Elefante.

Lei è la più splendida dimora

e la troverai all’isola Elefante.»

Intanto approdato nella Georgia del Sud, sano e salvo, Shackleton non pensò nemmeno minimamente ad abbondare i propri uomini al loro destino. Ancora più determinato organizzò i soccorsi e … purtroppo fallì, e per ben tre volte, di raggiungere l’isola.

La situazione si faceva di giorno in giorno più grave finché l’improbabile divenne realtà.

30 Agosto 1916 sull’Isola Elefante. Latitudine 61°01′S 54°54′W. Antartide.

Shackleton_1

Qualcosa si muove all’orizzonte e

alcuni esseri umani provano una gioia immensa:

“È lui. È il comandante. È Shackleton!”.

Dopo 20 mesi di odissea e 4 mesi di attesa

i 22 superstiti della spedizione Endurance esultano.

Non hanno mai perso la fede e la speranza.

Ora sono salvi.

“Lui”, il loro comandante, ce l’ha fatta.

E’ tornato a riprenderli.

Al quarto tentativo infatti Shackleton riuscì a tornare all’Isola Elefante con la nave cilena Yelcho che proveniva da Punta Arenas, in Cile, comandata da Luis Pardo. Shackleton portò in salvo l’intero equipaggio senza perdere neppure uno dei propri uomini:

«Avevamo sofferto, patito la fame e trionfato, toccato il fondo e agguantato la vittoria,

crescendo nella grandiosità dell’esperienza nel suo insieme.

Avevamo visto Dio in tutta la Sua gloria, ascoltato la voce della natura.

Eravamo riusciti a comprendere l’anima dell’uomo, un’anima messa a nudo.»

(Ernest Shackleton)

E tu, cosa saresti disposto a fare per comprendere la tua anima?

E per salvare le persone che ami?

Chi pregherebbe in ginocchio per sperare che Dio mandi proprio te?

Buon Vento!
la Crew NESW

 

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